Mio nonno faceva il mugnaio. Aveva un mulino a Pietracuta di quelli di una volta, con tanto di ruota che rotola nell’acqua trascinata dalla corrente.
Non sempre però una ruota che gira significa che la fortuna, nel suo peregrinare, si accorge finalmente di te e ti accoglie sotto la sua ala: il bilancio familiare quadrava con tripli salti mortali, e sette figli non contribuivano di certo ad alleggerire le spese.
Le ristrettezze economiche non impedivano però di togliersi qualche soddisfazione, e così la domenica ci si ritrovava con qualche parente attorno ad una tavola non proprio traboccante di cibo.
Una volta il cugino Mariano, di fronte alle ripetute offerte di accettare un secondo piatto di cappelletti, rintuzzò gli assalti opponendo il palmo della mano aperto tra sé e il mestolo agitato minacciosamente da mia nonna Sofia, argomentando che altrimenti dopo non avrebbe più mangiato niente.
Mia nonna si strinse nelle spalle, la sua bocca si allargò in un sorriso che irradiava un’ironia disarmante, prima di ammettere candidamente che “dopo” non c’era niente, ovvero che il menù non contemplava altre portate.
Nostra Signora la Miseria aveva imposto la dieta dissociata senza scomodare tanti dietologi.
Vinto un momento di fisiologico imbarazzo, passato a fissare il cucchiaio incagliato nelle secche dei rimasugli del brodo, Mariano se ne usci’ con una pillola di saggezza che merita di essere recapitata ai posteri: “ Cum’è ch’avivi det prima? L’è mei fe’ la faza rossa che ande’ vi sla panza mossa (traduco per i non avvezzi al dialetto romagnolo: Come avevate detto prima? È meglio arrossire un po’ piuttosto che andar via con lo stomaco che brontola)”.
Al termine di una lunga e spossante giornata di lavoro, mio nonno, lungi dal prosciugarsi le labbra col bacio della buonanotte ai suoi sette figli, stramazzare sul materasso e abbandonarsi al sonno del giusto, poteva finalmente coltivare la sua passione per la musica.
Suonava il banjo alle feste e nei locali da ballo, in coppia con un certo Grilli, virtuoso del violino. Quella volta non esistevano gli amplificatori e le corde più che accarezzarle dovevi prenderle a schiaffi e sacrificarne almeno due o tre alla causa.
La paga si misurava in bicchieri di vino, per cui alla fine della performance non era facile arrancare fino all’uscio di casa con la mente annebbiata dai vapori dell’alcool.
Ma la Fortuna, che non si era procurata un’ernia per lo sforzo di aiutare mio nonno economicamente, gli aveva fatto incontrare Piron, un cavallo dotato di un’intelligenza straordinaria che viveva in simbiosi col padrone.
Quando mio nonno andava alle fiere a Rimini o a Santarcangelo, Piron, tutte le sante volte che ai bordi della strada faceva capolino un’osteria, accostava per la sosta di rito senza bisogno di essere imbeccato. Anche per il ritorno a casa dopo le serate musicali, Piron innestava il pilota automatico, lasciando tranquillo mio nonno nel suo dormiveglia alcoolico.
L’ultima, meritatissima carezza prima di salire in casa era per lui, nel massimo livello di silenzio che la campagna sapeva offrire, fra stridere di grilli e sciabordare d’acqua nel ruscello, e mio nonno l’accompagnava con parole impastate e di sincera gratitudine: << At ringrezi Piron che t’ha me’r’port a chesa enca sta volta.>> (Ti ringrazio Piron, anche stavolta mi hai riportato a casa).
]]>Una vecchia canzone de “Le Orme” dice: “il sole a maggio è timido e scompare verso l’ora del rosario….”.
A proposito di maggio e del rosario, la mente va ai miei ricordi da ragazzo. Avevo più o meno 13 anni e i miei genitori gestivano un negozio di generi alimentari nella mitica “curva di Babbi”, con a fianco la Celletta Roccari ove, da tempo immemore, a maggio si svolgeva appunto il rosario, seguito allora da tanta gente. Dopo il rosario divenne consuetudine per alcuni di noi ragazzetti più o meno coetanei, fra i più temerari della zona, inforcare il “biciclettone” da donna, che se pur ci puntava la sella nella schiena ci permetteva però di andare veloce sul piano, e spingendo con forza, ci faceva superare le salite e avere più sicurezza in discesa. Via allora in queste piccole “zingarate” con rientro al massimo alle dieci di sera, perentorio allora! Si girava un po’ dappertutto ma senz’altro la zona più attraente erano le “contrade”, vuoi per le stradine strette e un po’ buie, il campanone, la rocca, il convento dei frati, le scalinate, le strane abitazioni, i palazzi, le grotte, ma soprattutto per l’alone di mistero e dicerie sui personaggi che l’abitavano, vero carburante per la nostra fervida fantasia. A quell’ora però generalmente era tutto deserto, si incontrava giusto qualche vecchietto che avvolto nella “capparella”, sotto il cappello sghimbescio, camminava un po’ barcollando, o qualche donnone di nero vestita con il fazzolettone in testa che si presentava sull’uscio gettava un’occhiata, o qualche cosa d’altro, e furtiva richiudeva veloce. Noi eravamo padroni del territorio, generalmente in sette o otto pedalavamo veloci da un posto all’altro e ci facevamo forza a vicenda parlando e commentando un po’ più ad alta voce, ogni tanto ci fermavamo per riprendere fiato, per osservare, qui per fantasticare e inventare suggestioni, qui invece per impaurirci vicendevolmente. Allora via a far fare la sua parte a qualche uccellaccio notturno, al rintocco improvviso del campanone, alle ombre strane degli alberi della rocca, alle voci o alle litanie che uscivano dai conventi, agli scherzi delle nuvole nel cielo e alle figure che le ombre formavano con la complicità della luna.
Uno dei posti più suggestivi erano le “vecchie carceri”. Era uno dei posti più piccoli e poco conosciuto ma non per questo meno inquietante, anche perché la storia che aleggiava, e a cui ognuno di noi aggiungeva un pezzetto, era che durante il giorno, i personaggi che lì avevano dimorato, e non per piacere, quando suonava il quarto a mezzogiorno si incontrassero e bisbigliassero i loro fattacci, i tribunali, le sentenze, i torti subiti, i pentimenti… il dolore, le lacrime, finanche la loro trista fine. Così noi ci dicevamo che, se proprio dovevamo passarci, era meglio andarci di notte. Parrebbe una contraddizione, ma di notte era tutto più tranquillo, e si diceva che al calar della sera quei personaggi si trasformassero in lucciole, e così l’aria che girava là dentro ci pareva più tranquilla, addirittura poetica e filosofica, adeguata e affascinante per dei ragazzetti quasi adolescenti. Allora, dopo aver bisbigliato qualcosa di incomprensibile anche noi, non ci rimaneva che rientrare velocemente e darci un ciao ciao e arrivederci per la sera seguente, nel dopo rosario. Generalmente nell’addormentarmi non avevo problemi, avevo già smaltito tutte le visioni ed emozioni e crollavo di colpo.
Può darsi che fossi “allenato”. La mia palestra, infatti, era il negozio dei miei genitori che frequentavo dopo la chiusura, senza accendere la luce, ora per andare a prendere qualche cosa ordinato dai miei, ora solo per divertimento mio: “vedere” le forme delle cose , sentire i passi, gli scricchiolii che lì vi abitavano al buio, e a cui, generalmente, di giorno non facevi caso.
Sull’onda di questo sentimento gagliardo, un giorno decisi di andare in solitaria con il biciclettone alle carceri, verso un quarto alle 12. Arrivato, appoggio il bolide e mi avvicino alla grata, piano piano, provando a fare silenzio per poter carpire le voci. Invece un silenzio assordante, solo qualche rondine e una timida cicala. Ma come? E la leggenda? E tutto il mio allenamento? Allora mi faccio forza, prendo un bel respiro, chiudo gli occhi, infilo il viso a forza nella grata…. e ZACCC! Ahhhiiiii un dolore lancinante mi prende al naso! Terrorizzato inforco il mezzo e via velocissimo, più lontano che posso. Mi fermo ansimante solo perché vedo uno specchio per strada. Con orrore mi avvicino pensando a quale visione deturpata riceverò della mia faccia… e che vedo? Una vespa, ancora attaccata alla punta del mio delicato nasino, lo aveva arpionato. Ancora con il pungiglione dentro, tiro via il tutto, spremo per far uscire il pungiglione, spremo per far uscire un po’ di sangue, un po’ di sputo e via lesto lesto a casa. A casa mi invento una storia, “sì mamma son passato vicino ad un cespuglio e una vespa mi ha beccato”.
Ma quella sera, dopo il rosario, alla domanda fatidica sul mio naso rosso, ho raccontato la mia avventurosa versione della storia: ero passato dalle vecchie carceri per una commissione e, a quella tal ora che leggenda raccontava, avevo pensato di andare a curiosare dentro la grata e… ZACCC, PORCA BOIA, son stato colpito da uno spadino luccicante condito da un rumore di catene e lamenti!!! BBBbrrr, un brivido corre sulla schiena dei miei compagni e, forse per solidarietà o per suggestione, anche sulla mia. Quella sera e anche per qualche sera successiva, le carceri vennero tacitamente saltate dal nostro itinerario. Poi cominciammo a passarci, ma via via veloci. Dopo qualche tempo, prima un po’ circospetti, poi sempre più tranquilli, riprendemmo a guardarci dentro. Ma le lucciole ormai non c’erano più, il mese di maggio e il rosario oramai passati, e anche dalla grata si guardava un po’ più lontano, verso il mare... ma qualcosa sentivamo, le carceri ci parlavano? forse… e la nostra fantasia continuava a correre.
]]>Correva l’anno 1969...
Quando il mattatoio comunale venne trasferito nella nuova sede di via Montevecchi nel 1924, portò con sé la tana del mitico Re delle bisce: “e’ ribéss” (il Ribisso), che secondo la mitologia popolare aveva la sua dimora proprio nel fosso di scarico del macello. Questo misterioso quanto temuto animale, che nessuno era mai riuscito a vedere, ma ben presente nelle raccomandazioni degli adulti, spesso veniva usato come minaccia o più semplicemente come spettro…
Io abitavo proprio “in faza mé pladéur” (dirimpetto al mattatoio) e insieme agli amici di rione ci trovammo spesso a dover scappare davanti a un vitellone, sfuggito ai macellai, che cercava una via di fuga nel nostro campetto da calcio! La qual cosa costringeva noi a salire sugli alberi, che ne segnavano il confine, per cercare scampo dal povero animale impazzito per il terrore. Ma lo spavento di quello non era paragonabile alla paura che il Ribisso sapeva incutere in noi bambini.
Va detto che allora le bande di bambini comprendevano tutti coloro che, per vicinanza abitativa ed età compresa fra gli otto e i sedici anni, si dedicavano al rito della raccolta della legna per la preparazione della “mucchia” (catasta) per la “fugaréina” (i fuochi di San Giuseppe), vera iniziazione di appartenenza: noi eravamo quelli della “Stazione Vecchia”, sempre in guerra con l’altra banda confinante, “Quelli delle Case Popolari”, composta dai coetanei di via Daniele Felici e dintorni.
Il nostro tempo era, per lo più, dedicato alle interminabili partite di calcio, alle sfide con le “cere e i pirulli”, cerbottane fatte con le cannette degli elettricisti e piccoli coni umettati ricavati da strisce di carta che fungevano da proiettili e alla raccolta dei materiali adatti alla combustione per la focarina…
Ma c’era un’altra attività che impegnava i nostri soleggiati pomeriggi estivi: l’esplorazione dell’ambiente circostante la nostra giurisdizione… e più selvaggio e misterioso era il terreno da perlustrare, meglio era.
Fu in una queste escursioni che ebbi modo di incontrare il Ribisso!
Quel giorno eravamo in cinque sulla sponda dell’Uso e ci eravamo spinti fin dopo il Calancone, nome dell’ultima curva conosciuta del fiume. Per noi il fiume era uno dei compagni di gioco più presenti. Conoscevamo tutti i “gorghi” (meandri) e gli “strisci” (aste fluviali) che lo componevano, ognuno con il suo nome: “e’ muraiòun” (il muraglione), “e’ gomit” (il gomito), “al venezi” (le venezie), “e’ stréss dla Pipéina” (l’asta della Peppina) e finalmente “e’ calancòun” cioè il Calancone.
Nessuno si era mai spinto oltre il Calancone e quel giorno, presi il coraggio a due mani e, seppur pervaso da un’apprensione palpabile data dall’incognito che stavo affrontando, decisi: vado avanti da solo!
Ora, non so se vi è mai capitato di metter piede in mezzo ai cocomeri asinini (Ecballium elaterium) in un caldo pomeriggio d’agosto. Solo con le ciabatte di plastica e i calzoni corti. Inoltre con la più che giustificata inquietudine che ogni esploratore che si rispetti prova nell’affrontare esperienze mai vissute da altri esseri umani…
Ecco… fu in lì, in una infinitesimale frazione di secondo, che ebbi la netta sensazione di essere morso alle caviglie da mille piccoli denti viperini, proprio mentre, al primo schianto del frutto che partiva rasente terra, ne seguivano molti altri in sequenza, in un crescendo di schizzi gelatinosi che si spandevano per il terreno circostante.
Una paura matta mi spinse a urlare con tutto il fiato che avevo in gola “IL RIBISSOOOO!!!”, mentre il terrore mi metteva le ali ai piedi.
Sono passati più di cinquant'anni, ma il ricordo antico di quegli avventurosi giochi bambini e il mio mitico incontro con quella figura fantastica mi gelano ancora con un brivido.
Peccato che i bambini di oggi non sappiano neanche cosa sia lo "sputaveleno"... E anche se mi è capitato di vedere dei videogiochi con dei mostri che a confronto il Ribisso è un pupazzetto di peluche, quella paura del mostro che nessuno vide mai, nessun videogioco potrà mai regalarla. A noi che la conoscemmo resterà comunque la panchina nei pratini di via Ruggeri a futura memoria dell’impareggiabile Ribisso.
]]>Quella che racconto è una storia vera, verissima, la storia di una bambina di nome Rosetta che abitava in via don Minzoni, nel Borgo di Santarcangelo, e di come molti anni fa, più di settanta a contarli tutti, trascorreva i lunghi pomeriggi d’inverno.
Era da poco passata la guerra che, con il suo sconquasso, tutto aveva distrutto. La Rosetta non aveva né colori, né libri, né giocattoli per passare il tempo libero!
Ma aveva una matita, un lapis viola di quelli che non si cancellano, tante scatole di cartone e un paio di forbici.
Ma se non possedeva nulla come faceva a possedere tali tesori? La sua mamma, di nome Onelia, aveva riaperto un piccolo negozio di merceria e vendeva filo di cotone, nastri, elastico, lana, calze, camicie, sottovesti….
Ogni volta che qualche scatola si vuotava, veniva buttata sotto il grande e vecchio bancone.
Lì era il regno di Rosetta che aveva trovato un bel da fare in quel nascondiglio, avendo scoperto che da sotto quel bancone, attraverso una fessura da cui entrava un po’ di luce, riusciva a spiare gli avventori del negozio di sua mamma. Quella era la sua finestra sul mondo, il posto di osservazione privilegiato su un teatro umano che le svelava, senza essere vista, caratteri, personaggi, storie.
E sapeste che tipi curiosi! Ad esempio, c’erano delle donne che vedendo la mamma riflessa nello specchio a lato dell’entrata (era una novità!) s’infilavano dritte dritte verso lo specchio esclamando: “Oh buon giorno Signora Onelia!” e… bum! davano delle zuccate incredibili. Una volta era successo anche al postino.
Ma andiamo per ordine.
La Rosetta, dopo aver ispezionato e scelto le scatole più lisce, era riuscita ad avere quel piccolo prezioso lapis viola con cui la mamma segnava i conti delle signore.
Con questo si metteva a disegnare, sui cartoncini, le sagome delle clienti; poi preso un paio di forbici, le ritagliava e dalla fessura del bancone, le faceva uscire alla luce, imitando la voce di qualche cliente particolare: “Onelia, am dé un ghéfal ad lèna gròsa macaròun, ch’ò da fè una brèta me mi Pirin? Sa che nivoun ch’u i è ad fura, l’à dó urèci ròssi cmè un pivaroun!”
(“Onelia, mi date un gomitolo di lana grossa tipo maccherone che devo fare una berretta al mio Pirin? Con quel nevone che c’è di fuori, ha due orecchie rosse come un peperone!”).
La buona Onelia si lamentava: “Rosetta, non devi prendere in giro le clienti! E poi devi stare da qui a lì!”.
Quella bambina ero io e quei personaggi sono rimasti nella mia memoria.
E qualcuno me lo ritrovo tra le mani, in pezzi di carta ritagliati settant’anni fa.
]]>Nella Contrada dei Fabbri, proprio a due passi da casa mia, c’era una sartoria molto rinomata e frequentata dalle signore dell’epoca. Era la sartoria della Silvana, sarta finissima e precisa, cuciva abiti meravigliosi e tailleur perfetti, poi si specializzò in abiti da sposa. Io andavo a bottega proprio lì, insieme ad altre 6 o sette ragazze, per imparare il mestiere.
Erano i primi anni ’50, avevo 17 anni e avrei voluto fare la magliaia, ma siccome la macchina costava troppo e i miei genitori non potevano permettersela, hanno scelto loro per me.
Quello della sarta era un mestiere molto diffuso all’epoca e tante erano le sartorie a Santarcangelo: la Renzi, la Palmina, la bellissima Peppina Magalotti, sposata con il conte Lele Marini, poi la bravissima Elda.
Erano sarte tutte rinomate con al seguito tante scolarette che con abilità e passione davano vita ad abiti da sogno per le signore di quei tempi.
Ricordo a proposito, un vestito bellissimo, realizzato dalla Silvana per una ragazza di Santarcangelo, la Tea Nicoletti, che doveva andare al veglione dei cacciatori dove facevano il concorso di bellezza “Miss Diana”.
Io ho lavorato con attenzione a questo abito favoloso rendendolo ancora più prezioso: ho applicato una cascata di fiorellini bianchi di pizzo, fissati con delle perle, su questa nuvola verde mare.
Silvana era molto soddisfatta del risultato e mi chiese di indossarlo per fare una bella foto da conservare come ricordo e come esposizione. Che emozione! Sembravo proprio una modella. Peccato che nella fotografia non si vedesse il colore.
Per la cliente è stata sicuramente una bella soddisfazione poterlo indossare e andare a quel veglione. Anche io avrei voluto tanto andarci, ma non avevo un abito adatto, non l’ho mai avuto.
Avevo però una bella voce, come mio babbo Primo, e mi sono tolta la soddisfazione di cantare al Supercinema dove c’era l’Orchestra diretta dal Maestro Rino Giorgetti che accompagnava i cantanti.
Serate meravigliose, con tanto di presentatore, musica dal vivo e tanto pubblico.
Cantavo i brani in voga in quegli anni: “Vecchia villa comunale”, “Abito da sera”, “Acquarello napoletano” tutte canzoni melodiche di quei tempi.
Ma non avevo un abito elegante. Solo una volta indossai un bell’abito da sera, ma non era mio.
Mi era stato prestato dalla Silvana per l’occasione.
Che serate! Quanti applausi e apprezzamenti ho ricevuto! Che bei ricordi!
In sartoria passavano tante signore e durante le prove degli abiti, si scambiavano due chiacchiere, mentre fuori, c’erano tanti ragazzi ad aspettare l’uscita di noi giovani scolarette.
A me piaceva ascoltare. A quei tempi anche a casa, alla sera, si usava fare la veglia e a casa nostra passava tanta gente. Ricordo che abitavano nella stessa casa anche i Nicolini, la Olga e suo marito, Pio detto “Pio dla Sefora”, il padre di Flavio Nicolini. Pio era un sovversivo e durante la guerra era stato imprigionato dai tedeschi, nelle carceri della città. La figlia Afra, mi aveva raccontato che quando era stata a trovarlo in carcere c’era un giovane soldato tedesco, un ragazzino, forse disertore che le aveva fatto molta compassione, pensando che avrebbero potuto fucilarlo, poverino, così giovane. E quel racconto mi aveva molto impressionato e colpito. Avevo sofferto molto per lui. Chissà che fine avrà fatto.
Un racconto invece che mi fa sempre sorridere è quello di mia nonna Mariuccia, che per aver defecato fuori di casa, anziché nel secchio (allora non c’erano i bagni nelle abitazioni) era stata messa una notte in galera e quindi ci diceva: “Me, par fè una caghéda ad fura, a so stè una nòta in galera!”
E così si raccontava, si sognava, si rideva, si piangeva, si condividevano insieme gioie e dolori.
Adesso, sembra tutta una favola, come quell’abito nella foto… un abito da favola.
]]>