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Racconti Sprigionati 4 | Quando misi il naso nelle “vecchie carceri”

Il Racconto Sprigionato di Marco Giorgi

Una vecchia canzone de “Le Orme” dice: “il sole a maggio è timido e scompare verso l’ora del rosario….”.

A proposito di maggio e del rosario, la mente va ai miei ricordi da ragazzo. Avevo più o meno 13 anni e i miei genitori gestivano un negozio di generi  alimentari nella mitica “curva di Babbi”,  con a fianco la Celletta Roccari ove, da tempo immemore, a maggio si svolgeva appunto il rosario, seguito allora da tanta gente.  Dopo il rosario divenne consuetudine per alcuni di noi ragazzetti più o meno coetanei, fra i più temerari della zona, inforcare il “biciclettone” da donna, che se pur ci puntava la sella nella schiena ci permetteva però di andare veloce sul piano, e spingendo con forza, ci faceva  superare le salite e avere più sicurezza in discesa. Via allora in queste piccole “zingarate” con rientro al massimo alle dieci di sera, perentorio allora! Si girava un po’ dappertutto ma senz’altro la zona più attraente erano le “contrade”, vuoi per le stradine strette e un po’ buie, il campanone, la rocca, il convento dei frati, le scalinate, le strane abitazioni, i palazzi, le grotte, ma soprattutto per l’alone di mistero e dicerie sui personaggi che l’abitavano, vero carburante per la nostra fervida fantasia.  A quell’ora però generalmente era tutto deserto, si incontrava giusto qualche vecchietto che avvolto nella “capparella”, sotto il cappello sghimbescio, camminava un po’ barcollando, o qualche donnone di nero vestita con il fazzolettone in testa che si presentava sull’uscio gettava un’occhiata, o qualche cosa d’altro, e furtiva richiudeva veloce. Noi eravamo padroni del territorio, generalmente in sette o otto pedalavamo veloci da un posto all’altro e ci facevamo forza a vicenda parlando e commentando un po’ più ad alta voce, ogni tanto ci fermavamo per riprendere fiato, per osservare, qui per fantasticare e inventare suggestioni, qui invece per impaurirci vicendevolmente. Allora via a far fare la sua parte a qualche uccellaccio notturno, al rintocco improvviso del campanone, alle ombre strane degli alberi della rocca, alle voci o alle litanie che uscivano dai conventi,  agli scherzi delle nuvole nel cielo e alle figure che le ombre formavano con la complicità della luna. 

Uno dei posti più suggestivi erano le “vecchie carceri”. Era uno dei posti più piccoli  e poco conosciuto ma non per questo meno inquietante, anche perché la storia che aleggiava, e a cui ognuno di noi aggiungeva un pezzetto, era che durante il giorno, i personaggi che lì avevano dimorato, e non per piacere, quando suonava il quarto a mezzogiorno si incontrassero e bisbigliassero i loro fattacci, i tribunali, le sentenze, i torti subiti, i pentimenti… il dolore, le lacrime, finanche la loro trista fine. Così noi ci dicevamo che, se proprio dovevamo passarci,  era meglio andarci di notte. Parrebbe una contraddizione, ma di notte era tutto più tranquillo, e si diceva che al calar della sera quei personaggi si trasformassero in lucciole, e così l’aria che girava là dentro ci pareva più tranquilla, addirittura poetica e filosofica, adeguata e affascinante per dei ragazzetti quasi adolescenti.  Allora, dopo aver bisbigliato qualcosa di incomprensibile anche noi, non ci rimaneva che rientrare velocemente e darci un ciao ciao e arrivederci per la sera seguente, nel dopo rosario. Generalmente nell’addormentarmi non avevo problemi, avevo già smaltito tutte le visioni ed emozioni e crollavo di colpo. 

Può darsi che fossi “allenato”. La mia palestra, infatti,  era il negozio dei miei genitori che frequentavo dopo la chiusura, senza accendere la luce, ora per andare a prendere qualche cosa ordinato dai miei, ora solo per divertimento mio: “vedere” le forme delle cose , sentire i passi, gli scricchiolii che lì vi abitavano  al buio, e a cui, generalmente, di giorno non facevi caso. 

Sull’onda di questo sentimento gagliardo, un giorno decisi di andare in solitaria con il biciclettone alle carceri, verso un quarto alle 12.  Arrivato, appoggio il bolide e mi avvicino alla grata, piano piano, provando a fare silenzio per poter carpire le voci. Invece un silenzio assordante, solo qualche rondine e una timida cicala. Ma come? E la leggenda? E tutto il mio allenamento? Allora  mi faccio forza, prendo un bel respiro, chiudo gli occhi, infilo il viso a forza nella grata…. e ZACCC! Ahhhiiiii un dolore lancinante mi prende al naso! Terrorizzato  inforco il mezzo e via velocissimo, più lontano che posso. Mi fermo ansimante solo perché vedo uno specchio per strada. Con orrore mi avvicino pensando a quale visione deturpata riceverò della mia faccia… e che vedo? Una vespa, ancora attaccata alla punta del mio delicato nasino, lo aveva arpionato. Ancora con il pungiglione dentro, tiro via il tutto, spremo per far uscire il pungiglione, spremo per far uscire un po’ di sangue, un po’ di sputo e via lesto lesto a casa. A casa mi invento una storia, “sì mamma son passato vicino ad un cespuglio e una vespa mi ha beccato”. 

Ma quella sera, dopo il rosario, alla domanda fatidica sul mio naso rosso, ho raccontato la mia avventurosa versione della storia: ero passato dalle vecchie carceri per una commissione e, a quella tal ora che leggenda raccontava, avevo pensato di andare a curiosare dentro la grata e… ZACCC, PORCA BOIA,  son stato colpito da uno spadino luccicante condito da un rumore di catene e lamenti!!!  BBBbrrr, un brivido corre sulla schiena dei miei compagni e, forse per solidarietà o per suggestione, anche sulla mia.  Quella sera e anche per qualche sera successiva, le carceri vennero tacitamente saltate dal nostro itinerario. Poi cominciammo a passarci, ma via via veloci. Dopo qualche tempo, prima un po’ circospetti, poi sempre più tranquilli, riprendemmo a guardarci dentro. Ma le lucciole ormai non c’erano  più, il mese di maggio e il rosario oramai passati, e anche  dalla grata si guardava un po’ più lontano, verso il mare... ma qualcosa sentivamo, le carceri ci parlavano? forse… e la nostra fantasia continuava a correre.    

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